Stefano Cerveni: manzo stellato

Da Rovato al centro di Milano. Dalla nonna alla Michelin. Dalla trippa al bowl vegetariano. Dall’anguilla psichedelica alla focaccia 12. La provincia e la tradizione, che ti portano in cima al mondo e nel posto più chic della città più cosmopolita d’Italia.

Tanta gavetta, ma ne è valsa la pena, perché ora si gusta il successo con la consapevolezza di aver creato qualcosa di solido e duraturo, di gustoso ed intrigante. Due Colombe, Terrazza Triennale, Gud: l’uomo ha seminato bene e ora raccoglie le soddisfazioni, gastronomiche ed economiche.

Sì, Stefano Cerveni di Rovato, provincia di Brescia, è un uomo felice e realizzato: lo sa. Non si ferma mai e non vuole scendere dalla giostra delle stelle e del divertimento gastro-chic. Sa evolversi, trasformarsi, adattarsi in base ai format e alla clientela, capisce al volo come ammaliare la clientela e come farla tornare da sé.

Parentesi: solitamente quando parli di uno chef lo fai dopo aver assaggiato parte o gran parte dei suoi piatti iconici, noi invece dobbiamo ancora andarci alle Due Colombe, di conseguenza l’intervista non ha alcun riferimento ad una sua creazione stellata, sarebbe assurdo parlare per sensazioni e per sentito dire: certo, lo fanno in tanti e in tanti lo faranno, ma non ci pare un buon motivo per parlare a vanvera. Di conseguenza niente frasi e metafore sulle cotture, i profumi, sulla morbidezza del suo manzo e via dicendo; promettiamo che ci andremo a breve e che torneremo sull’argomento, d’altronde i suoi piatti fanno gola anche a noi, eccome. Abbiamo invece assaggiato le sue pietanze proposte alla Terrazza Triennale e al Gud.

Per ora domande e risposte su vita, carriera, filosofia e progetti.

  • Partiamo dalla nonna Elvira e dalla sua osteria.
  • 30 coperti, più nove stanze da letto. Si mangiava tanta trippa, bigoli e lumache. La gente veniva per il mercato del bestiame, si fermava da lei per tutto il tempo necessario, era un via vai incessante, l’attività era fiorente, io sono cresciuto lì, giocavo con la pasta fresca, era tutto scritto.

  • Difatti ha iniziato lì.
  • Si, con mio padre Giuseppe, che poi si è ritirato, lasciandomi fare di testa mia, poi però nel 2000 ho trasferito il ristorante in un vecchio mulino.

  • Lei passa per uno che va in giro e spende parecchio dai colleghi.
  • Ero un figlio di papà, mi consideravo un fenomeno e invece non lo ero. Quando misi piede al Miramonti l’altro capì che avevo ancora tantissima strada da fare. Idem quando andai da Heinz Beck, fu in quei momenti che mi resi conto di voler lavorare per avere la stella. Per la verità, inizialmente con Heinz ci siamo conosciuti qui in Franciacorta, nel 2006: venne per un evento a base di culatello e bollicine, ci siamo messi a parlare fino alle sei del mattino. Mi incoraggiò: “Hai molto da dire, non avere paura di esprimerti e di prendere la tua strada”.

  • La stella arriva nel 2009.
  • A quei tempi l’assegnazione era diversa, l’anno prima ricevevi la cosiddetta nomination e se tutto andava per il verso giusto, se rispettavi le attese, quello successivo la conquistavi. Fu un anno particolare, perché la cerimonia ebbe luogo nel ristorante di Berton, al Trussardi alla Scala: lo spazio era ridotto, così che non c’era posto per tutti, di conseguenza la Michelin ci ha chiamati solo nella stessa mattinata della cerimonia, centellinando gli inviti.

  • Si è fatto un’idea sul perché ha preso la stella?
  • L’ho presa quando ho fatto la mia cucina. Io sono uno che mangiava la trippa a colazione, ho dovuto prima capire chi ero e cosa ero in grado di esprimere.

  • Cosa si mangiava da lei ai tempi della nomination?
  • Alcuni piatti li trovi anche ora: i bigoli al pestom, un ragù a base di salame fresco e vino rosso, poi i ravioli di coniglio ala bresciana, l’anguilla psichedelica, il manzo all’olio. I gourmet chiedono i piatti classici, i clienti fidelizzati preferiscono le novità, per cui posso tenere in carta sia i piatti di una volta che le nuove creazioni.

  • Come potremmo caratterizzare la sua cucina di quei tempi?
  • Il pranzo della domenica. Abbondare con il sugo, perché le mie radici sono queste, sono il nipote di mia nonna.

  • In quel periodo quasi tutti imitavano Ferran Adrià, lei come si è comportato?
  • La clientela mi ha fatto capire cosa e come avrei dovuto proseguire, ovvero non cambiare. Mi dicevano: “Bello, buono, ma la terrina ce l’hai ancora?”. Certo, sono rimasto pure io ammaliato dalle schiume e dal resto, però non le sentivo mie, per nulla.

  • Forse ha incontrato Marchesi al momento giusto.
  • Venne per tre volte qui da me, la prima ordinò uno dei risotti e a fine cena disse: “Buono, ma non farti troppe pippe”. Mi ha aperto gli occhi. Io invece andai da lui per la prima volta nel 1999, lo ricordo come ora, spesi 300.000 lire. Alla fine ci siamo messi a parlare, quasi non ci potevo credere, Gualtiero che mi dedicava mezz’ora.

  • Cosa vuol dire oggi proporre i piatti della tradizione?
  • Significa cercare di alleggerirli, ma non tanto. La gente ama ancora quei piatti di una volta, tipo la zuppa di cicoria, la pasta e fagioli, la trippa di vitello in umido. Ho la fortuna di poter fare quello che voglio, qui alle Due Colombe.

  • Subito dopo la stella lei si trasferisce nel borgo della famiglia Gozio.
  • Avevo appena preso la stella, ci siamo incontrati ad un evento, io facevo il catering: mi hanno chiesto se avessi il piacere di andare assieme a loro e vedere un borgo che stavano ristrutturando. Appena l’ho visto mi sono innamorato perdutamente, ci stavano lavorando da nove lunghi anni: sono ancora lì.

  • Progetto Triennale, com’è successo?
  • Da una parte io cercavo nuovi sbocchi, perché la ristorazione oggi impone avere più attività, per poter stare a galla. Però non avrei mai pensato di poter aprire un ristorante nel Parco Sempione, è come stare a Central Park, chi l’avrebbe mai immaginato? Vidi il posto a ottobre, era tutto così romantico, fra foglie color ruggine e il resto, una poesia. Mi sono detto: “Sarebbe un delitto non provarci”.

  • Qui è diverso rispetto alle Due Colombe.
  • Eccome. Target diverso, numeri diversi, la cucina anche. Non è stato facile trovare la quadra, ho avuto bisogno di tempo per capire cosa vogliono i milanesi e cosa no. Siamo entrati in punta di piedi, per tentativi, ci è voluto del tempo. Poi ho avuto la fortuna di trovare un ragazzo come Matteo Ferrario, l’attuale resident chef: gran parte dei piatti sono suoi, ci sentiamo e ci consultiamo ogni giorno.

  • Poi è nato il Gud.
  • Si, sempre con le stesse persone con le quali abbiamo aperto la Terrazza Triennale, ormai siamo inseparabili (gli altri soci sono Ugo Fava e Marco Giorgi, ndr). Il penultimo aperto, zona City Life, è un gioiello, voleva essere un chiringuito da spiaggia, con sdraio, social table e il resto, è andata e va oltre le nostre più rosee previsioni, facciamo 600 piattini e 400 cocktail durante il weekend. Gli altri Gud sono il Darsena, ovvero l’ex Social Market Fish and Chips, poi quello aperto alla Stazione e infine il Gud di Via Eustachi. Ho pensato a dei piattini veloci, golosi e gustosi, chic, ficcanti, vedi il chirashi che qui chiamiamo Cirasci Milano, ovvero riso Carnaroli cotto con il metodo del sushi, ma poi condito con delle materie prime mediterranee, oppure il Sea-ciliano, a base di mazzancolle e pesto di pomodoro, fatto da noi. Praticamente sono dei bowl, un’evoluzione del poké, poi si aggiungono le focacce e i panini, super studiati e infinitamente deliziosi.

  • Che momento vive la ristorazione italiana?
  • È un momento non esaltante, Milano a parte. È dura, durissima.

  • C’è un personaggio per il quale vorrebbe cucinare?
  • Per Zucchero e per mia moglie.

  • C’è stato un episodio che le è rimasto impresso, in tutti questi anni come ristoratore?
  • Si, una lettera ricevuta da una neo sposa: “Chef grazie, mi hai salvato il matrimonio”. In pratica lei e il marito stavano per annullare le nozze: l’incantesimo si era rotto, mentre cercavano il ristorante giusto avevano capito di avere dei punti di vista diversi sulla vita. Come per magia, sono riuscito a farli tornare insieme. Il buon cibo riconcilia perfino i nemici, figuriamoci gli innamorati.

(di Dominique Antognoni)