Alessandro Panichi – Ristorante Sotto l’Arco, Bologna

CHEF ALESSANDRO PANICHI
Classe 1978, il pizzo ottocentesco sotto il lampo celeste degli occhi, la divisa immacolata su cui si leggono le lettere nere: Alessandro Panichi. È sotto romantiche sembianze d’antan, che si presenta lo chef di Sotto l’Arco, forte di un curriculum che concilia la storia con la contemporaneità, la tradizione e l’avanguardia, la solarità mediterranea con le brumose morbidezze padane.
I natali sono a Sarzana, in una Liguria imbastardita dal meticciato con l’Emilia e la Toscana, dove lo iodio impregna l’humus dell’Appennino; la vocazione è precoce, fra i campi di basilico da attraversare nella fuga verso il mare e gli alberi su cui arrampicarsi per mordere la frutta. Galline, conigli, castagne sul fuoco e la polenta rovesciata sul tavolo di mattonelle, cinto dal ferro delle damigiane: “Sono cresciuto in uno scenario rurale, con i racconti di mio nonno che spadellava per tutta la famiglia. E la cucina mi ha conquistato subito come un mezzo per far stare bene le persone, una missione al pari del lavoro dei dottori”.


Già durante l’alberghiero iniziano le prime stagioni, fra cui, decisiva, quella al Saraghino di Numana con Massimiliano Emiliozzi e Roberto Fiorini, dove assaggia per la prima volta ritmi e durezze della ristorazione gastronomica. Ma è il desiderio di avvicinarsi a Marchesi a guidare subito i suoi passi. Diretti prima al Papillon di Antonio Ghilardi a Torre Boldone, poi a La Pernice e la Gallina di Marco Fadiga, altro allievo del Maestro. Vi trascorre i primi tre anni sotto le due torri: “Un ristorante che sentivo mio: ho iniziato in ginocchio, pulendo lo spazio fra le mattonelle, e ho concluso da secondo”. Vi fa la conoscenza di Giuseppe Sportelli (sua attuale spalla in sala), che riveste il ruolo di maître e sommelier.
Nel 2000 è finalmente Albereta: un anno speso al fianco di Paolo Lopriore, “un fulmine che ci lasciava basiti con le sue illuminazioni”; seguito da 7 mesi al Lotti di Parigi con un altro esponente della generazione Marchesi, Silvio Salmoiraghi. Ma è la svolta avanguardista a incalzare: ne è artefice Pier Bussetti della Locanda Mongreno di Torino, presso il quale Panichi si ferma per tre anni in veste di secondo, familiarizzando con le tecniche spagnole e partecipando alla conquista della stella Michelin. La prima toque da chef è quella della leggendaria Locanda dell’Angelo di Ameglia, dove il figlio di Paracucchi, Stefano, gli mette fra le mani quaderni e ricettari del padre. Cosicché i due fondatori della cucina italiana si trovano riuniti, a poche righe di distanza, sullo stesso, interminabile CV.
Il passaggio Sotto l’Arco è datato 2011: avviene nel relais della famiglia Caselli situato a Borgo Panigale, nei suburbi di Bologna. Qui da cinque anni la cucina di Alessandro Panichi si evolve senza scosse: la crescita è ininterrotta, verso uno stile personale dove le esperienze pregresse dialogano e si fondono in nuove forme di espressione. Al ristorante e alla banchettistica si è aggiunta nel 2012 la trattoria Aretusi, consacrata alle specialità petroniane. “Un successo immediato: il nostro mezzo per entrare in sintonia con la città e le sue tradizioni, non senza feedback sul ristorante”.
(Photo by Lido Vannucchi)

LA CUCINA

Storia, tecnica, divertimento, gusto. È a tavola che il curriculum di Alessandro Panichi si lascia leggere dettagliatamente, in ogni sua chiosa e minima postilla. Origina un pasto vario e vivace, contraddistinto da una piacevole alternanza fra gli stili. “Il signor Marchesi è stato lo chef che mi ha segnato di più, nel senso di una classicità contemporanea, della separazione fra ingredienti, dell’estetica e della soavità gustativa; mentre di Paracucchi, che personalmente non ho mai conosciuto, ho assorbito il culto del prodotto, dalla cui analisi partivano tutte le ricette”.
Sotto l’Arco la cucina ha però esordito nel segno di una contemporaneità scoppiettante, ironica e tecnicamente avanzata, che tuttora punteggia il pasto quale lascito degli anni torinesi; presto stemperata dall’avvolgenza di uno stile maturo ed elegante, che prende spunto dai classici regionali per destrutturarli senza accanimenti tecnici o eccessi gustativi. Fino ai piatti più recenti, che risaltano per verticalità e per nitore: sulla porcellana una manciata di ingredienti crudi o minimamente elaborati, che disegnano linee di tensione perfettamente dritte fra gusti primari. “Ma le punte non sono mai troppo aguzze: è una cucina che non mi appartiene, cerco sempre un’armonia che consenta di mettere i piatti in sequenza”.


La selezione delle materie prime è appannaggio dello chef: solo il meglio e rigorosamente di stagione. Al pesce provvedono tre fornitori di prodotti adriatici, siciliani o rarità anche internazionali. Le verdure arrivano da due piccoli fornitori locali; le carni sono europee, con l’eccezione dell’ocean beef che tanto somiglia al kobe. “Ma siamo sempre alla ricerca di qualcosa di buono. Può capitare che passi in pescheria e mi imbatta in una tentazione irresistibile. È così che nascono i piatti fuori carta, che sono la palestra per la carta successiva; ma dopo un paio di stagioni il ricambio è generalizzato”. Capitolo tecniche, la bassa temperatura sta cedendo il passo al fuoco, a ritroso sul corso della gastronomia. “Mi piace pensare di tornare a fare il cuoco; voglio la padella, il contatto con la materia, la sapidità della rosolatura, i fondi fatti bene. Un piatto anche classico preparato come si deve”. Il territorio è ben presente: “Il mio primo maestro di cucina bolognese è stato Marco Fadiga, che proponeva anche una carta tradizionale con i tortellini della sua tata, di cui seguo tuttora la ricetta. Poi c’è mia suocera, che è bolognesissima. Sono gusti cui mi piace restare fedele, trasformando magari il modo di proporli”. Accade nel “menu turistico”, che viene servito solo il giovedì a pranzo: riunisce le specialità cittadine, reinterpretate col sorriso. Quindi il bollito sotto forma di terrina con gelato di friggione, i tortellini né panna né brodo, la geniale tagliatella al ragù crunch, con il sugo essiccato e il suo grasso in mantecatura, il tortellone invidioso, ripieno come una lasagna di besciamella e ragù, la cotoletta petroniana con la tartara fritta in carrozza e la torta di riso scomposta. Gli altri giorni, ma solo a cena, sono disponibili varie formule di degustazione: 4 o 5 portate a scelta libera dalla carta; con l’alternativa del menu al buio, le cui corse vengono pescate al momento dallo chef, compresi i frequenti fuori carta ispirati al mercato del giorno. A dettarlo è l’istinto, guidato se possibile dalla conoscenza dell’ospite e delle sue preferenze.
La trattoria è invece il regno di paste fatte in casa, tigelle e crescentine. Le materie prime sono le stesse del ristorante; come alcune preparazioni, per esempio tagliatelle e tortellini. Vengono elaborate da un cuoco bolognese, Vasco Galiani, esperto soprattutto di pasticceria tipica. “Io compio gli acquisti, insieme decidiamo il menu con i nuovi piatti e i fuori carta. Per me un ulteriore approfondimento sul territorio”.

Ristorante Sotto l’Arco

Arte, ma della tavola. L’edificio tardorinascimentale che incornicia la cucina di Alessandro Panichi era un tempo residenza di Cesare Aretusi, pittore il cui nome ci è stato trasmesso dai manuali di storia dell’arte in calce alle illustrazioni degli affreschi della Cattedrale. Con i suoi volumi solenni, gli spazi verdi dell’ampio giardino e l’aura della storia sopravvissuta ai secoli, si ritrova oggi in una posizione strategica per chi viaggia: sulla cerniera fra l’abitato e il primo verde, nei pressi dell’autostrada e della fermata della navetta per l’aeroporto.
Ridotto a un rudere, è stato recuperato integralmente dalla famiglia Caselli, che ha riqualificato l’area sotto la supervisione delle Belle Arti. Le dieci camere sono state ricavate negli spazi del vecchio fienile, mentre la trattoria è ospitata in quello che un tempo era lo studio del pittore. Le cucine sono due: una al piano terra per la trattoria, l’altra, meglio equipaggiata, al piano superiore per il ristorante. Con un occhio di riguardo per l’ecosostenibilità, grazie all’impianto fotovoltaico istallato nell’ampio parcheggio
Gli arredi, come la cucina, giocano le carte dell’eleganza e del territorio. Sui pavimenti c’è la veneziana in marmo tipica della città, tutelata dalle Belle Arti; alle pareti bande scarlatte e tende in lino lavorate a mano; sui tavoli posateria in argento WMF, storica azienda tedesca. Lo stile è vagamente inglese.
La carta dei vini conta 400 etichette: accanto al meglio del territorio propone riesling, bollicine italiane e francesi, abbinamento elettivo della cucina, insieme ad una assortita carta delle acque.

Villa Aretusi,
Ristorante Sotto l’Arco
Via Aretusi 5,
40132 Bologna
Tel. 051-6199848
Fax. 051-6169213
info@villa-aretusi.it

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