Acanto, Principe di Savoia

Principe Buffolino

Estasi ad Acanto

Quando è arrivato la media era di 7 coperti a sera. Ora sono più di 70.

Almeno tre volte a settimana dobbiamo rifiutare delle prenotazioni perché siamo pieni, ma pieni per davvero”, sostiene orgogliosa Alessandra Veronesi, la direttrice del ristorante. “Nessuno a Milano lavora quanto noi, a questi livelli”, rincara la dose lo chef Alessandro Buffolino.

Ha ragione, i ristoranti del genere hanno una capienza attorno ai 50 coperti e raramente registrano il full booking. E’ cambiato molto dal suo arrivo, tre anni addietro. E’ cambiato lui e soprattutto è riuscito a cambiato il ristorante: agli inizi pareva leggermente intimidito dalla storia dell’albergo e forse si sentiva un po’ stranito guardando il locale sempre vuoto. Non lo ammetterà mai, però sotto sotto avrà anche pensato “Chi me lo ha fatto fare”. Veniva dalla scuola di Michel Guerard, poteva trovare un posto meno impegnativo come target e impostazione, eppure ha scelto la strada difficile e tortuosa dell’Acanto, il ristorante dell’hotel Principe di Savoia.

Che sia chiaro: l’albergo macina utili come nessuno e per di più continua a fare il tutto esaurito nonostante un numero di stanze nettamente superiore agli altri, ma per la parte gourmet partiva con lo svantaggio e il pregiudizio di essere visto come il classico tetro locale di un cinque stelle d’antan. Certo, chi è stato in cucina negli anni passati ha contribuito a tenerlo nell’ombra, o forse i tempi non erano maturi per un menù scintillante e per una clientela desiderosa di miagolare per il piacere. Lo si sa, per decenni la ristorazione di un albergo è stata malvista: pochi piatti, elementari e assai tristi, un servizio ingessato e un’atmosfera discutibile, fra il polveroso e il moribondo. Di conseguenza Alessandro, campano doc ma con un carattere da tedesco, si è trovato a prendere le redini di un posto carico di marmi e storia ma privo di vita, nonostante ci lavorassero persone di livello (vedi Alessandra Veronesi, a quei tempi sommelier, poi promossa come direttrice). In quasi tre anni ha dimostrato quanto vale, i numeri sono lì a testimoniarlo e per fortuna non mentono: già dall’inizio del 2017 la situazione aveva preso la direzione giusta, a quei tempi la media dei coperti era già arrivata a 40, ora siamo sulla settantina, con picchi da 90 coperti a sera. Da notare che in cucina ci sono solo 12 ragazzi, chef compresso, ma sono così affiatati da poter servire anche 200 clienti.

Merito dello chef, che li ha scelti uno per uno e che ora non lascerebbero la brigata per nulla al mondo. “E nel caso lo volessero fare mi opporrei di sicuro”, dice sornione l’apparente mite Alessandro, uno che ha come mantra in cucina tre parole: “ordine, pulizia, precisione”. Già che ci siamo al capitolo mantra, ecco anche i suoi credi culinari: “cacio pepe, babà e mojito”. Ha riempito il ristorante, l’età media della clientela si è abbassata, il posto non è più visto come superato e ingessato, bensì come un luogo di gran classe dove si mangia molto bene e dove il servizio rasenta la perfezione. Perché, va detto, lo è: qui il merito va alla direzione dell’hotel, l’eccellenza del personale non si discute, hanno una marcia in più, sono felpati, silenziosi ed efficaci, senza mai fare un movimento a vuoto. Chapeau Ezio Indiani, perché è lui il direttore del Principe ed è l’artefice di tutto ciò. Tornando allo chef, sa che molto è stato fatto ma che si è solo all’inizio dell’opera: sky is the limit, dicono gli anglosassoni, qui invece prima del cielo si pensa alla prima stella Michelin, “perché onestamente ce la meritiamo”. Sarà per l’anno prossimo a quanto pare, ma non saranno dodici mesi a scalfire il suo entusiasmo. Arde in lui la voglia di fare della ristorazione uno spettacolo, lo vedi dal suo sguardo: qualche passaggio sperimentale c’è stato, con dei risultati altalenanti, ora però le idee sono chiare, i piatti decisi, senza esitazioni. Il livello è alto, non ci sono dubbi. I suoi nuovi piatti sono forti ma allo stesso tempo garbati, eleganti, d’altronde viene dalla scuola di Guerard, lui ha solo aggiunto un tocco campano e più in generale mediterraneo, il massimo. Tecniche francesi e idee italiane, forse così si spiega il suo spaghetto quadrato aglio olio peperoncino e polpo, piatto di una sensualità e intensità che superano il livello di guardia, fra cremosità e capacità di inebriare il palato. Quando arrivò all’Acanto si presentò con un pacchero all’osso buco da impazzire, è stato il suo primo notevole biglietto da visita, seguito poi dalla pasta al caviale e spuma di patate: ora invece spopola lo spaghetto, anche se fosse per i nostri gusti toglieremmo il polpo, perché già di per sé il piatto racconta e da tanto, tantissimo. Sono interpretazioni soggettive che non cambiano e non spostano il nostro giudizio, d’altronde sarebbe l’unico appunto in una serata piena di sorprese e certezze.

La wagyu marinata è il jolly vincente,  mentre il boccadoro, una specie di ombrina pescata nell’Atlantico, è la dama di cuori.

L’asso rimane lo spaghetto, che suggeriamo anche alle persone che all’ora di pranzo preferiscono un solo piatto. Non ci sono sbavature, non ci sono tempi morti, in più è piacevole guardarsi attorno e vedere pezzi da novanta del capitalismo italiano come amano sedersi qui a cenare. Tavolate da sei, addirittura da otto, perché spesso portano qui ospiti illustri, il che racconta molto, se non tutto, sul servizio, il menù e l’atmosfera. Abbiamo lasciato alla fine il capitolo vini, perché l’argomento merita si essere trattato a parte. La cantina vanta 27 verticali, probabilmente un record nazionale, se la gioca con l’Enoteca Pinchiorri: Mara Vicelli, la sommelier, è un altro asso vincente del ristorante. A proposito, ci ha consigliato un Fantinel Eclisse per abbinare allo spaghetto aglio olio peperoncino. Voto? 10.

(Di Dominique Antognoni)


Ristorante Acanto
Presso Hotel Principe di Savoia – Ingresso diretto in Piazza della Repubblica 17,
20124 Milano
tel. +39 (02) 6230 2026