BA-Asian Mood: Marco, il predestinato

Marco va di fretta. E’ il più piccolo dei tre fratelli Liu, si è sposato giovanissimo ed è diventato papà subito dopo, nel 2015 (la moglie si chiama Francesca, lavora assieme a lui ed è pure lei di origini cinesi, mentre loro figlio si chiama Liam).

Non aveva ancora compiuto 20 anni quando i genitori gli consegnarono le chiavi di BA, appena ristrutturato e tirato a lucido.

Non si è spaventato, non ha tremato, non ha esitato: semplicemente si è messo a lavorare con l’entusiasmo, con l’incoscienza e la spavalderia tipiche della giovinezza, sicuro di potercela fare. Certo, dietro c’era Giulia, qui assieme a lui nel primo anno (quante litigate), e poi i genitori tenevano d’occhio la situazione, senza però immischiarsi nella gestione quotidiana. “Papà mi ha lasciato tutta la libertà del mondo. Sono partito con un chiodo fisso, creare un menù e dei piatti originali, senza alcuna possibilità di paragone con altri ristoranti. Non aveva senso riproporre la solita cucina cinese vista e rivista altrove, allo stesso tempo cercavo una rottura con il passato e con quell’idea di ristorante cinese dove c’è odor di fritto. Prima di aprire ho fatto il giro della concorrenza: solo da Tahua, in Via Fara, si mangiava in un modo più evoluto, per il resto roba cheap, superata e senza emozioni. Così che ci siamo messi a studiare un menù classico e solido, partendo dai dim sum, che in quel periodo stavano diventando di moda. Alcuni sono ancora nel menù. In cucina avevamo un cuoco di Hong Kong”.

Sono passati sette anni, sembra ieri. Marco non è cambiato per nulla, pare ancora un adolescente, per certi versi lo è, con quei modi un po’ scanzonati. Impressiona, e tanto, la sua umiltà, poi è gentile, gentilissimo.

Il ristorante è relativamente diverso dagli altri due, Iyo e Gong: più immediato, meno sofisticato, più allegro e meno pretenzioso. Va da sé che si mangia benissimo, alcuni piatti sono di una bontà struggente, vedi il maialino con salsa di aglio nero: si scioglie al solo contatto con il palato, sembra panna montata. Succoso, gustoso, tenerissimo.

La lista dei dim sum è infinita, quelli all’anatra sembrano delle caramelle croccanti.

Il caffè, va detto, è forse il migliore assaggiato in un ristorante di alto livello a Milano: è tutto merito suo, perché è ossessionato dalla macinazione, controlla le temperature, la pressione, l’umidità. E’ un bravissimo ristoratore, niente da dire.

BA è una macchina che va veloce, un puledro di razza che galoppa verso la consacrazione.

Come e perché, i segreti, le dinamiche e le fatiche ve le racconta lui.

– Nel 2011, quando avete aperto, ti aspettavi di raggiungere i livelli di oggi?
– No, certo che no.

– Perché il ristorante si chiama Ba?
– La parola Ba in cinese significa papà e anche otto, peraltro un numero che, se girato a 90 gradi, ha le sembianze dell’infinito, il che piaceva a tutti noi. L’idea è che il ristorante ci sarà per sempre, così come la nostra famiglia.

– Da uno a dieci quanto sei contento di quello che sei riuscito a realizzare finora?
– Fra sei mesi vi dirò dieci, prima devo compiere una piccola rivoluzione, dei lavori in sala: sono previsti per il prossimo luglio. Ora dico otto, un otto pieno. Esteticamente manca qualcosa, ho già in mente tutto, vedrete. La cucina non ha bisogno di restyling e migliorie, l’abbiamo rifatta interamente nel 2015, tutta su misura, esattamente come la volevo io.

– Tre piatti che secondo te rappresentano e caratterizzano al massimo il ristorante e la sua filosofia.
– I dim sum, mi è difficile scegliere uno soltanto. Poi le costine di maiale, gli spaghetti con asparagi e King Krab, la guancia di vitello brasato. Sono piatti di grande carattere, di personalità, a me piacciono così.

– Dal menù iniziale, quello dell’apertura, avete mantenuto qualche piatto?
– I dim sum, quasi tutti. Poi lo spaghetto al thé verde e salmone, lo si ordina ancora, e tanto.

– Con Giulia e Claudio scambiate idee e opinioni sulla ristorazione?
– Con Claudio ci scambiamo soprattutto i piatti, facciamo spesso il baratto con il take away. Capita spesso che lui mi chiami proponendomi dei naghiri, io ricambio mandando dei dim sum. Scherzi a parte, è ovvio che ci sentiamo spesso, quotidianamente, ma non per parlare dei nostri ristoranti, bensì della nostra famiglia.

– Cosa ammiri di più nei loro ristoranti?
– L’estetica, prima di tutto.

– La clientela di BA è prettamente fidelizzata, oppure numericamente prevale la gente che viene da voi considerandovi una destinazione gourmet da provare una volta e basta?
– C’è un mix ed è giusto così. Non si può vivere solo di clienti fidelizzati, come non si può andare avanti puntando sui coloro che vengono per curiosità e per piazzare la bandierina della qualità accanto al nostro ristorante.

– Chi gestisce la cucina?
– Bryan Hooi, un ragazzo splendido e con la mano decisa, ispirata. E’ per metà malese e per metà cinese, proprio quello che serviva a noi.

– Che tipo di vino sceglie la clientela?
– Al settanta per cento é orientata verso i vini bianchi, poi all’interno di questo settanta per cento la metà sono bollicine, dallo champagne al Franciacorta.

– Lo scontrino medio nel vostro ristorante?
– 60 euro.

– Qualche cliente famoso?
– Ci vengono spesso i giocatori dell’Armani Jeans, alcuni se la prendono per il cambio del menù, vedi Curtis che proprio non riesce a mandar giù il fatto che abbiamo tolto il pollo in agrodolce. Certo, se ce lo chiede con un giorno di anticipo lo possiamo accontentare. Poi ci sono tantissimi amministratori delegati di banche e multinazionali, un gran numero di imprenditori: meglio non fare i nomi, vengono qui perché sanno di poter cenare tranquilli.

– Qual è stato il più bel complimento ricevuto finora?
– Quando dei ragazzi che hanno lavorato da noi mi hanno ringraziato per il periodo passato qui.

– A proposito, trovare del personale è un vero problema, tu come lo gestisci?
– In un ragazzo cerco l’umiltà, la passione e l’onestà. Non mi interessa l’esperienza, ma i valori umani.

– Punti alla stella?
– No, le mie ambizioni sono altre.

– Tipo?
– Ne riparliamo fra dieci anni.

– Hai un motto nella vita?
– Odiavo il latino, però un giorno la maestra ci insegnò una frase che poi diventò il mio mantra: “homo faber fortunae suae”.

– Cosa ti ha insegnato tuo padre?
– Essere umile e lavorare tanto.

Più umile e gran lavoratore di lui è impossibile.

(Di Dominique Antognoni)


Ba-Asian Mood
Via Raffaello Sanzio,
22 20149 Milano
tel. +39024693206

 

seguiteci su